1 febbraio 2010

02 FEBBRAIO
YPAPANTÍ DEL SIGNORE, DIO E SALVATORE NOSTRO GESÚ CRISTO

"Il quarantesimo giorno dopo l’Epifania è qui (Gerusalemme) celebrato veramente con grande solennità”, scrive Egeria nel suo Diario del pellegrinaggio fatto ai Luoghi santi sul finire del IV sec., “In quel giorno, infatti, si fa una processione all’Anastasis (Chiesa della Resurrezione) e tutti vi partecipano; ogni cosa si compie con grande festa, come a Pasqua. Predicano tutti i sacerdoti e pure il vescovo, commentando sempre quel passo del Vangelo nel quale si dice che Giuseppe e Maria, il quarantesimo giorno, portarono il Signore al Tempio e che Simeone e la profetessa Anna, figlia di Fanuele, lo videro, e si ricordano le parole che essi dissero alla vista del Signore e l’offerta che i genitori fecero. “Dopo aver compiuto secondo il rito tutte le cerimonie usuali, si celebrano i Misteri (la divina Liturgia) e avviene il commiato”. Questa è la prima notizia della festa della Presentazione al Tempio di nostro Signore. La solennità veniva celebrata il 14 febbraio e non vi è menzione del rito dei ceri. Secondo Cirillo di Scitopoli (+ 560 circa) fu la matrona romana Ikelia, vissuta al tempo dell’imperatore Marciano (450-457) a suggerire di celebrare la festa della Presentazione con dei lumi portati in processione. È noto, comunque, da numerose fonti che per la celebrazione di questa festa venisse fatto uso di luci e di fiaccole; un esempio ci viene offerto da Cirillo di Alessandria (+ 444), che, rivolgendosi ai suoi fedeli nel giorno della Presentazione, cosi li esortava: “Festaggiamo in modo splendente con lampade brillanti il mistero di tale giorno”. Ed in una coeva omelia anonima gerosolimitana leggiamo: “Siamo splendenti e le nostre lampade siano brillanti. Quali figli della luce offriamo i ceri alla vera luce che è Cristo”. Nel VI sec., la festa veniva celebrata nelle chiese della Palestina e di Costantinopoli, dove era stata introdotta da poco, come ci dice Severo, patriarca di Antiochia (512-518). Quindi potremmo dire, in lionea di massima, che tra la fine del V e gli inizi del VI sec. le varie chiese del territorio orientale dell’impero avevano fatto propria tale festività. Sull’introduzione della festa a Bisanzio, tuttavia, gli storici non sembrano essere del tutto concordi. Leggiamo, infatti, nella Cronaca di Teofane che nell’ottobre del 534 era sopravvenuta a Costantinopoli una terribile pestilenza e che in seguito alla sua cessazione Giustiniano avesse ordinato che la solennità della Presentazione venisse celebrata nella capitale ed in tutto l’impero il 2 febbraio. Niceforo, invece, nella sua Storia Ecclesiastica sostiene che ad introdurre tale festa nella Capitale fosse stato Giustino, zio e predecessore di Giustiniano, nel 527. Queste notizie storiche, per quanto discordanti tra loro, non sono tuttavia in contraddizione; forse è da attribuire a Giustiniano solo lo spostamento della data della celebrazione dal 14 al 2 febbraio per ricordare la cessazione dell’epidemia. Sapopiano inoltre che la festa della Presentazione fu introdotta a Roma da papa Sergio (687-701). Alcuni studiosi pensano che la festa sia stata adottata nella vecchia capitale per soppiantare qualche ricorrenza pagana quale, per esempio, quella dei Lupercali o quella della ricerca di Proserpina da parte della madre Cerere. Questo argomento è stato oggetto di una lunga disputa in cui i pareri sono stati alquanto discordi, anche se è sembrato prevalesse l’opinione di quelli che non vedevano alcun legame, o tentativo di sovrapposizione, all’una o all’altra delle solennità pagane. A nostro avviso, non è da trascurare il fatto che papa Sergio (687-701) fosse un Siro proveniente dalla Sicilia bizantina. La Chiesa bizantina fin dall’adozione di questa festa l’ha indicata con un nome significativo: Hypapantì, cioè Incontro. In altri termini, si è voluto porre l’accento sull’incontro di Gesù con il giusto Simeone, piuttosto che sottolineare il motivo della Purificazione della Vergine o soltanto quello della Presentazione e dell’offerta del Bambino al Tempio del Signore. Questi altri temi, naturalmente, sono anch’essi presenti nell’innografia e nell’omiletica, ma hanno, tuttavia, un rilievo minore rispetto all’episodio dell’incontro con il vegliardo. Bisogna dire che non si è di fronte ad una scelta casuale, ma voluta. Infatti, sebbene la festa fosse celebrata a Bisanzio, come si è detto, sin dal VI sec. e poi dal 602 nella chiesa della Vergine alle Blacherne, non sembra, tuttavia, abbia mai assunto aspetto o significato di ricorrenza mariana come è avvenuto in Occidente (la Candelora). Il fatto che i Bizantini abbiano posto in rilievo l’Incontro tra Cristo e Simeone e che abbiano ascritto tale festa tra quelle despotiche, cioè del Signiore, è dato dalla volontà di sottolineare l’incontro dell’uomo vecchio col nuovo, prefigurazione della discesa agli Inferi.
(Tratto da Gaetano Passarelli, L'Icona della Presentazione del Signore, La Casa di Matriona, Milano 1992)

PRIMA ANTIFONA

Exirèvxato i kardhìa mu lògon agathòn; lègo egò ta èrga mu to vasilì.

SECONDA ANTIFONA

Perìzose tin romfèan su epì ton miròn su, Dhinatè, ti oreotitì su ke to kàlli su.

Sòson imàs, Iiè Theù, o en ankàles tu dhikèu Simeòn vastachthìs, psallondàs si: Allilùia.

TERZA ANTIFONA

Akuson, thìgater, ke ìdhe, ke klìnon to us su, ke epilàthu tu laù su, ke tu ìku tu patròs su.

Chère kecharitomèni, Theotòke Parthène; ek su gar anètilen o Ìlios tis dhikeosìnis Christòs o Theòs imòn, fotìzon tus en skòti. Effrènu ke si Presvìta dhìkee, dhexàmenos en ankàles ton eleftherotìn ton psichòn imòn, charizòmenon imìn ke tin Anàstasin.

ISODHIKON

Eghnòrise Kìrios to sotìrion aftù enandìon pàndon ton ethnòn, apekàlipsen tin dhikeosìnin aftù.

Sòson imàs, Iiè Theù, o en ankàles tu dhikèu Simeòn vastachthìs, psàllondàs si: Allilùia.

TROPARI

Chère kecharitomèni…

O Mìtran Parthenikìn aghiàsas to tòko su, ke chìras tu Simeòn evloghìsas, os èprepe, profthàsas ke nin èsosas imàs, Christè o Theòs. All’irìnevson en polèmis to polìtevma, ke kratèoson tus pistùs us igàpisas, o mònos filànthropos.

EPISTOLA (Eb. 7,7-17)

Fratelli, senza dubbio, è l’inferiore che è benedetto dal superiore. Inoltre, qui riscuotono le decime uomini mortali; là invece le riscuote uno di cui si attesta che vive. Anzi si può dire che lo stesso Levi, che pur riceve le decime, ha versato la sua decima in Abramo: egli si trovava infatti ancora nei lombi del suo antenato quando gli venne incontro Melchìsedek. Or dunque, se fosse stata possibile la perfezione per mezzo del sacerdozio levitico – sotto di esso il popolo ha ricevuto la legge – che bisogno c’era che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchìsedek, e non invece alla maniera di Aronne? Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge. Questo si dice di chi è appartenuto a un’altra tribù, della quale nessuno mai fu addetto all’altare. È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio. Ciò risulta ancor più evidente dal momento che, a somiglianza di Melchìsedek, sorge un altro sacerdote, che non è diventato tale per ragione di una prescrizione carnale, ma per la potenza di una vita indefettibile. Gli è resa infatti questa testimonianza: Tu sei sacerdote in eterno alla maniera di Melchìsedek.

VANGELO (Lc. 2,22-40)

In quel tempo, i genitori portarono Gesù a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è stato scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele; lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, lo prese tra le braccia e benedisse Dio: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”. Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”. C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui.

MEGALINARIO

Theotòke, i elpìs pàndon ton christianòn, skèpe, frùri, fìlatte tus elpìzondas is se. En nòmo skìa ke gràmmati tìpon katìdhomen i pistì; pan àrsen to tin mìtran dhianìgon àghion Theò. Dhiò protòtokon Lògon, Patròs anàrchu Iiòn, protokùmenon Mitrì apiràndhro megalìnomen.

KINONIKON

Potìrion sotirìu lìpsome, ke to ònoma Kirìu epikalèsome. Allilùia.

OPISTHAMVONOS

Dhèspota, Kìrie o Theòs, o ton monoghenì su Iiòn ke Lògon exapostìlas is ton kòsmon, ghenòmenon ek ghinekòs, ghenòmenon ipò nòmon exagoràsi; ke dhià tu Pnevmatòs su tin aftù parusìan to presvìti Simeòn proevanghelisàmenos, ke tùton aftò parònda kataminìsas, aftòs ke imàs tus anaxìus dhùlus su evlòghison ti si epilàmpsi, ke pròsdhexe imòn tas dheìsis, òsper tin tis profìtidos Ànnis exomològhisin; ke kataxìoson imàs noerès ankàles periptìssesthe ton sesarkomènon su Lògon, ke naùs ighiasmènus chrimatìzin tu panaghìu su Pnèvmatos; ke tus pistùs àrchondas èffranon ti dhinàmi su, tin katà ton echthròn aftòn charizòmenos nìkin; ìna ke en imìn dhoxasthì to megaloprepès onomà su, ke tu monoghenùs su Iiù ke tu proskinitù ke zoopiù su Pnèvmatos, nìn, ke aì, ke is tus eònas ton eònon.

APOLISIS

O en ankàles tu dhikèu Simeòn vastachthìne katadhexàmenos, dhià tin imòn sotirìan…

Commento al Vangelo:

La presentazione di Gesù al tempio, in osservanza a Es. 13, 1-16, è un momento culminante nel racconto dell'infanzia; in tutto il resto del vangelo Gerusalemme occuperà un posto centrale. Luca non dice nulla del riscatto o "redenzione" di Gesù, egli era proprietà del suo Padre celeste anche prima di questa cerimonia; questo atto esternò ciò che era e sarebbe rimasto sempre vero. Invece di un agnello di un anno, Maria e Giuseppe fanno "l'offerta dei poveri" (una coppia di tortore o di giovani colombi), un volatile era per l'olocausto di adorazione, l'altro era per un sacrificio per il "peccato". Simeone è un uomo estraneo al servizio nel tempio che giunge "mosso dallo Spirito", anche lui aspetta che si compia la profezia delle "settanta settimane", cioè l'ora ultima quando Dio verrà a salvare, una volta per tutte, il suo popolo: una speranza proclamata dal "libro della consolazione". Simeone gode di una grazia unica: egli sa che questo momento è imminente, vedrà il momento in cui, con la venuta del Messia, la storia sarà definitivamente ribaltata. Lui, l'ultima sentinella dell'antica alleanza che attendeva l'alba dei tempi messianici "prese tra le braccia" il primogenito del mondo nuovo che egli ha riconosciuto. Prorompe poi in un cantico e in una profezia. Diversamente da Maria e da Zaccaria che, nel loro inno, parlavano di Dio alla terza persona, Simeone si rivolge direttamente a lui. Davanti al Signore che ha mantenuto la sua promessa egli riconosce che il suo compito di sentinella è giunto al termine: come Abramo, egli può andarsene in pace presso i suoi padri ed essere sepolto (Gen 15,15); il patriarca aveva non solo ricevuto la promessa ma l'aveva anche visto realizzarsi. Inoltre, lo Spirito profetico gli concede una nuova luce sulla missione del bambino, un messaggio che Gabriele non aveva rivelato a Maria: Gesù sarà il Servo che Dio ha destinato ad essere luce delle nazioni, affinché la sua salvezza raggiunga l'estremità della terra (Is. 49,6). I pagani non saranno soltanto i testimoni, ma i beneficiari della salvezza definitiva, allo stesso titolo di Israele. Si tratta di una straordinaria anticipazione, poiché questo sarà il programma annunciato dal Risorto e realizzato da Paolo che adempirà, nel nome del suo Signore, questa profezia di Isaia. Ma al cantico di gioia segue una profezia minacciosa: il figlio di Maria diventerà motivo di divisione in Israele. Parole profetiche che Gesù farà proprie: "Pensate che io sia venuto per portare la pace tra gli uomini? No, vi dico, ma la divisione…". Il rifiuto di Gesù e della sua parola da parte di Israele, qui preconizzato, percorrerà come un filo rosso tutta l'opera di Luca fino alla tremenda conclusione degli Atti: ai giudei di Roma, divisi, Paolo dichiarerà che la salvezza di Dio sarà inviata ai pagani, poiché essi ascolteranno. In definitiva l'uomo dovrà pronunciarsi a favore o contro l'inviato di Dio: ciò permetterà di svelare inevitabilmente i pensieri segreti di molti uomini, cioè l'indurimento del loro cuore. Una simile profezia attua una convinzione della Bibbia: gli stessi doni di Dio sono fonte di vita o di morte secondo le disposizioni di coloro che li ricevono. Simeone rivela in poche parole che una tale divisione del popolo ferirà Maria nel più profondo del suo essere. In ciò non dobbiamo scorgere un annuncio dei dolori di Maria ai piedi della croce, episodio assente in Luca. Ma come Madre del Messia ella soffrirà più degli altri israeliti per il modo in cui questo messianismo si realizzerà. Il racconto potrebbe terminare qui. La vecchia profetessa Anna che arriva non annuncia alcuna nuova rivelazione, ma si esprime in linguaggio indiretto. Ma è a questa donna, modello della vedova giudea o cristiana, che tocca fare eco al cantico di Simeone, permettendo così a Luca di chiudere questa scena di rivelazione con una nota gioiosa. La conclusione ricorda ancora una volta la fedeltà dei genitori alla legge. Poi c'è il ritorno in Galilea. Al contrario di Giovanni che viveva nel deserto, Gesù abita a Nazaret.

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