29 maggio 2010

30 MAGGIO 2010
DOMENICA DI TUTTI I SANTI

TROPARI

Della Domenica: Ex ìpsus katìlthes o Efsplachnos, tafìn katedhèxo triìmeron, ìna imàs elefthèrosis ton pathòn: I zoì ke i Anàstasis imòn, Kìrie, dhòxa si.

Di tutti i Santi: Ton en òlo to kòsmo Martìron su, os porfìran ke vìsson, ta èmata i Ekklisìa su stolisamèni. Dhi’aftòn voà si, Christè o Theòs. To laò su tus iktirmùs su katàpempson, irìnin ti politìa su dhòrise, ke tes psichès imòn to mèga èleos.

Della titolare della Parrocchia: En ti ghennìsi tin parthenìan efìlaxas, en ti kimìsi ton kòsmon u katèlipes, Theotòke. Metèstis pros tin zoìn, Mìtir i-pàrchusa tis zoìs ke tes presvìes tes ses litrumèni ek thanàtu tas psichàs imòn.

Kontàkion: Os aparchàs tis fìseos to fiturgò tis ktìseos i ikumèni prosfèri si, Kìrie, tus theofòrus màrtiras. Tes aftòn ikesìes, en irìni vathìa, tin Ekklisìan su, tin politìan su dhià tis Theotòku sindìrison, polièlee.

EPISTOLA (Eb. 11,33-12,2)

Fratelli, tutti i Santi per fede conquistarono regni, esercitarono la giustizia, conseguirono le promesse, chiusero le fauci dei leoni, spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, trovarono forza dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri. Alcune donne riacquistarono per risurrezione i loro morti. Altri poi furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione. Altri, infine, subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – di loro il mondo non era degno! –, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra. Eppure, tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa: Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi. Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede.

VANGELO (Mt. 10,32-33.37-38.19,27-30)

Disse il Signore ai suoi Discepoli: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”. Allora Pietro prendendo la parola disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?”. E Gesù disse loro: “In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi”.

KINONIKON

Agalliàsthe dhìkei en Kirìo tis evthèsi prèpi ènesis. Allilùia.

OPISTHAMVONOS

Tu ti glorifichi nelle volontà dei tuoi Santi, o Cristo Dio nostro, letizia degli Apostoli, gioia dei Profeti, costanza dei martiri, gaudio dei Santi e corona della tua Madre! Signore donaci la tua pace: guida e proteggi la nostra vita, affinché con la misericordia della tua bontà possiamo imitare i loro combattimenti e, resi a te accetti, conseguire a loro la futura beatitudine. Poiché tu sei la nostra santificazione, e noi rendiamo gloria a Te, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre nei secoli dei secoli.

22 maggio 2010

23 MAGGIO 2010
DOMENICA DELLA SANTA PENTECOSTE



PRIMA ANTIFONA

I uranì dhiìgunde dhòxan Theù, pìisin dhe chiròn aftù ananghèli to sterèoma.

SECONDA ANTIFONA

Epakùse su Kìrios en imèra thlìpseos, iperaspìse su to ònoma tu Theù Iakòv.

Sòson imàs, Paràklite agathè, psàllondàs si. Alliluia.

TERZA ANTIFONA

Kìrie, en ti dhinàmi su evfranthìsete o Vasilèvs, ke epì to sotirìo su agalliàsete sfòdhra.

Evloghitòs i, Christè o Theòs imòn, o pansòfus tus aliìs anadhìxas, katapèmpsas aftìs to Pnèvma to Aghion, ke dhi’aftòn tin ikumènin saghinèvsas; Filànthrope, dhòxa si.

ISODHIKON

Ipsòthiti Kìrie en ti dhinàmi su; àsome ke psalùmen tas dhinastìas su.

Sòson imàs, Paràklite agathè, psàllondàs si: Allilùia.

TROPARI

Evloghitòs i, Christè…

Ote katavàs tas glòssas sinèchee, dhiemèrisen èthni, o Ipsistos; òte tu piròs tas glòssas dhièminen, is enòtita pàndas ekàlese; ke simfònos dhoxàzomen to panàghion Pnèvma.

TRISAGHION

Osi is Christòn evaptìsthite, Christòn enedhìsasthe. Allilùia.

EPISTOLA (Atti 2,1-11)

Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: “Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti, e abitanti della Mesopotàmia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”.

VANGELO (Gv. 7,37-52.8,12)

Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato. All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: “Questi è davvero il profeta!”. Altri dicevano: “Questi è il Cristo!”. Altri invece dicevano: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?”. E nacque dissenso tra la gente riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso. Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: “Perché non lo avete condotto?”. Risposero le guardie: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!”. Ma i farisei replicarono loro: “Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi, o fra i farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”. Disse allora Nicodèmo, uno di loro, che era venuto precedentemente da Gesù: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?”. Gli risposero: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea”. Di nuovo Gesù parlò loro: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”.

MEGALINARIO

Mi tis fthoràs dhiapìra kioforìsasan, ke pantechnìmoni Lògo sàrka dhanìsasan, Mìter apìrandhre, Parthène Theotòke, dhochìon tu astèktu, chorìon tu apìru, Plasturgù su, se megalìnomen.

KINONIKON

To pnèvma su to agathòn odhighìsi me en ghi evthìa. Allilùia.

Al posto di “Idhomen to fòs…” e “Ii to ònoma…” si canta:

Evloghitòs i, Christè…

OPISTHAMVONOS

O tin sin anàvasin, metà to pàthos ke tin Anàstasin, is uranùs ikonomìsas us èklinas pros to dhi’imàs ek Parthènu sarkothìne ke katavàs, Christè, tin sin epanghelìan epì ghis themeliòsas ti tu Paraklìtu su Pnèvmatos epifitìsi epì tus ghiìnus su mathitàs; edhrèan dhi ke panaghìan en aftìs katamonìn ke dhi’aftòn is se pistèfsasi vevèa endhimìa, ke tis pikìlis aftù charìsmasi tin Ekklisìan ipostirìzon, mi andanèlis tin aftù chàrin af’imòn, os ipò tis amartìas vevilothèndon, allà nèkroson pan sarkikòn enipàrchon en imìn frònima, to kolìon tin en imìn aftù parusìan, pàsan ènnian, laliàn te ke pràxin lipùsan aftò apodhìoxon af’imòn, ke pan miaròn pàthos enochlùn ke skotinàs apotelùn imòn tas psichàs ti sterìsi tu fotòs aftù; pìison imàs katharà dhochìa tis aftù dhòxis, mimumènus to tis Siòn iperòon, plirothèn aftù tis lambròtitos; thrònus imàs anàdhixon tu noerù piròs aftù afomiumènus tis tin aparchìn aftù dhexamènis Apostòlis su; òpos, ip’aftù stirizòmeni, odhighithòmen is tin efthìan ghin tis athanàtu su ke makarìas epanghelìas; èntha pàndon effrenomènon i katikìa en si, ke dhiinekòs se dhoxazòndon; iperèndhoxos gar ipàrchis àma to sinanàrcho su Patrì, ke to sinaidhìo ke panaghìo ke agathò ke zoopiò su Pnèvmati, nin ke aì, ke is tus eònas ton eònon.

APOLISIS

O en ìdhi pirìnon glòssan uranòthen katapèmpsas to panàghion Pnèvma epì tus aghìus aftù Mathitàs ke Apostòlus, Christòs…

Commento al Vangelo:
Nel settimo e ultimo giorno della festa delle Capanne, al momento in cui i sacerdoti attingevano acqua alla fonte di Siloe e la portavano processionalmente al tempio, Gesù fa una solenne proclamazione pubblica, dichiarando di essere la vera sorgente di acqua viva a cui possono dissetarsi i credenti in lui, fondando le sue parole su passi biblici non specificati. L’evangelista aggiunge il suo commento alla luce della glorificazione pasquale e afferma che l’acqua viva effusa da Cristo è lo Spirito Santo. La folla reagisce continuando il dibattito sulla vera identità di Gesù: è il profeta per eccellenza o lo stesso Messia (“Cristo”)? C’è, però, una difficoltà di fondo: Gesù proviene dalla Galilea e non da Betlemme, la patria di Davide. Le autorità giudaiche non hanno esitazioni: Gesù è troppo pericoloso e deve essere arrestato. Ma le guardie rimangono anch’esse conquistate dalle parole di Gesù, suscitando un aspro rimprovero da parte dei loro mandanti. Ma ecco entrare di nuovo sulla ribalta Nicodemo, che protesta sul metodo repressivo seguito dai suoi colleghi. Essi gli replicano ritornando sulla questione delle origini del messia, che non può provenire dalla Galilea, come accade a Gesù.

15 maggio 2010

16 MAGGIO 2010
DOMENICA SETTIMA DOPO PASQUA – DEI SANTI PADRI DEL I CONCILIO DI NICEA

PRIMA ANTIFONA

Pànda ta èthni, krotìsate chìras; alalàxate to Theò imòn en fonì agalliàseos.

SECONDA ANTIFONA

Mègas Kìrios, ke enetòs sfòdhra en pòli tu Theù imòn, en òri aghìo aftù.

Sòson imàs, Iiè Theù, o en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, psàllondàs si: Allilùia.

TERZA ANTIFONA

Akùsate tàfta, pànda ta èthni; enotìsasthe, pàndes ikatikùndes tin ikumènin.

Anelìfthis en dhòxi, Christè o Theòs imòn, charopiìsas tus mathitàs ti epanghelìa tu Aghìu Pnèvmatos, veveothèndon aftòn dhià tis evloghìas, òti si i o Iiòs tu Theù, o Litrotìs tu kòsmu.

ISODHIKON

Anèvi o Theòs en alalagmò, Kìrios en fonì sàlpingos.

Sòson imàs, Iiè Theù, o en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, psàllondàs si: Allilùia.

TROPARI

Della Domenica: Anghelikè Dhinàmis epì to mnìma su, ke i filàssondes apenekròtisan; ke ìstato Marìa en to tàfo zitùsa to àchrandòn su sòma. Eskìlefsas ton Adhin mi pirasthìs ip’aftù, ipìndisas ti Parthèno, dhorùmenos tin zoìn. O anastàs ek ton nekròn, Kìrie, dhòxa si.

Della festa: Anelìfthis en dhòxi…

Dei Ss. Padri: Iperdhedhoxasmènos i, Christè o Theòs imòn, o fostìras epi ghis tus Patèras imòn themeliòsas, ke dhi’aftòn pros tin alithinìn pìstin pàndas imàs odhighìsas, polièvsplaghne, dhòxa si.

Della titolare della Parrocchia: En ti ghennìsi tin parthenìan efìlaxas, en ti kimìsi ton kòsmon u katèlipes, Theotòke. Metèstis pros tin zoìn, Mìtir ipàrchusa tis zoìs ke tes presvìes tes ses litrumèni ek thanàtu tas psichàs imòn.

Kontàkion: Tin ipèr imòn pliròsas ikonomìan, ke ta epì ghis enòsas tis uranìis, anelìfthis en dhòxi, Christè o Theòs imòn, udhamòthen chorizòmenos, allà menòn adhiàstatos, ke voòn tis agapòsi se; egò imì meth’imòn, ke udhìs kath’imòn.

EPISTOLA (Atti 20,16-18.28-36)

In quei giorni, Paolo aveva deciso di passare al largo di Èfeso per evitare di subire ritardi nella provincia d’Asia: gli premeva di essere a Gerusalemme, se possibile, per il giorno della Pentecoste. Da Mileto mandò a chiamare subito ad Èfeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!”. Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò.

VANGELO (Gv. 17,1-13)

In quel tempo così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo disse: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse. Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi. Quand’ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia”.

MEGALINARIO

Se tin ipèr nun ke lògon mitèra Theù tin en chròno ton àchronon afràstos kiìsasan i pìsti omofrònos megalìnomen.

KINONIKON

Anèvi o Theòs en alalagmò, Kìrios en fonì sàlpingos. Allilùia.

Al posto di “Idhomen to fòs…” e “Ii to ònoma…” si canta:

Anelìfthis en dhòxi…

APOLISIS

O anastàs ek nekròn ke en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, ke en dhexià kathìsas tu Theù ke Patròs…

Commento al Vangelo:
Questa parte è definita preghiera “sacerdotale” dalla tradizione, perché Gesù sembra intercedere presso il Padre come un grande sacerdote che si offre come vittima in favore di quelli che Dio gli ha affidato, ma anche perché oggetto della sua preghiera sono i discepoli “consacrati” dalla sua parola.
Si nota subito in questa preghiera di Gesù il verbo “glorificare”: Gesù va incontro all’“ora” per eccellenza (cioè alla croce) che conclude la sua vita terrena, non per approdare alla morte, ma per superarla e accedere alla luce della divinità e dell’eternità. Quindi questa “ora” giunge per la “gloria”, e il Figlio ha glorificato il Padre su questa terra facendo conoscere il suo nome agli uomini attraverso le sue parole e le sue azioni. Il Padre, a sua volta, con la risurrezione glorificherà Gesù con il suo ritorno a quella gloria che egli possedeva fin da tutta l’eternità nel suo stato di pre-incarnazione. Colui che accoglie questa gloria di Dio presente in Gesù crocifisso riceve la vita eterna, vale a dire entra nell’intimità (nella “conoscenza”) del vero Dio e di suo Figlio Gesù Cristo.

13 maggio 2010

13 MAGGIO 2010
ASCENSIONE DEL SIGNORE DIO E SALVATORE NOSTRO GESU’ CRISTO

“Credo (…) che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso (dal cielo), si è incarnato, si è fatto uomo, ha patito, è risuscitato il terzo giorno, è salito nei cieli, verrà a giudicare i vivi e i morti”.
Queste sono le parole che fissarono i 318 Padri convenuti al Concilio Niceno I il 19 giugno 325 nel Simbolo della nostra fede, per scandire i momenti essenziali dell’economia della salvezza operata dal Figlio di Dio.
“Il Signore nostro Gesù Cristo”, scriveva Macario Crisocefalo, “patendo, morendo ed essendo stato seppellito, ha riscattato dalla corruzione se stesso e quanto è soggetto ad essa, avendo trasformato il suo corpo in incorruttibilità ed avendo ripreso la sua anima con la potenza, perché era Dio, è risorto il terzo giorno. E rimano Dio con la carne e l’anima, indivisibile nei secoli, non passibile più nella carne. (…) Dopo la Resurrezione, infatti, non ha rifiutato alcuna delle nostre caratteristiche che aveva assunto: né il corpo, né l’anima, ma pur avendo acquisito un corpo circoscrivibile ed un’anima spirituale ed intellettiva, volitiva ed energetica, ritornò nei cieli, dove siede alla destra del Padre”.
Per ricordare degnamente questi misteri della fede, la Chiesa ha istituito delle festività, che dovrebbero suscitare nell’animo dei cristiani l’amore per il Salvatore.
La Chiesa di tradizione bizantina conta oggi dodici grandi feste.
Si tratta di feste del Signore (despòtiche) e della Madre di Dio (theomitòriche) fisse o mobili nella loro celebrazione.
L’attuale calendario liturgico delle Chiese di tradizione bizantina vede intersecarsi tre cicli liturgici diversi, intendiamo il ciclo settimanale scandito dagli otto toni, quello mensile con le commemorazioni fisse e, infine, quello pasquale, che costituisce il ciclo mobile vero e proprio.
Quest’ultimo è, a sua volta, distinto in due parti: periodo Quaresimale (triòdhion) e periodo della Resurrezione (pentikostàrion), che va dalla domenica di Pasqua alla domenica successiva alla Pentecoste: festa di tutti i santi.
Il periodo della Resurrezione sin dai primordi del cristianesimo è caratterizzato dalla gioia e dalla liberazione da ogni affanno materiale e spirituale: non ci si doveva sottoporre ad alcuna pratica di carattere penitenziale né ad alcuna preoccupazione temporale.
Era una forma di pregustazione del Regno dei cieli.
Tertulliano, infatti, ha lasciato scritto esplicitamente in due sue opere che, “come ci è stato tramandato”, da Pasqua a Pentecoste, non solo bisogna guardarsi dal compiere qualsiasi forma di ansietà e da ogni incombenza, differendo pure le occupazioni, per non dare spazio al diavolo”.
Il giovedì della sesta settimana dopo Pasqua, cioè il quarantesimo giorno dopo la Resurrrezione, si festeggia attualmente l’Ascensione del Signore. La celebrazione, come per tutte le grandi solennità, si avvale di un ottavario che si conclude il venerdì successivo.
Nei primi quattro o cinque secoli della Chiesa, tuttavia non era così; leggiamo, infatti, nel Diario di viaggio della pellegrina Egeria, databile agli anni ottanta del 300: “Nel quarantesimo giorno dopo Pasqua, che è giovedì, a cominciare dal giorno prima, vale a dire dal mercoledì dopo l’ora sesta, tutti vanno a Betlemme per celebrare la vigilia. Essa si svolge a Betlemme nella chiesa dove c’è la grotta in cui nacque il Signore. Il giorno dopo, giovedì, che è il quarantesimo giorno dopo Pasqua, l’ufficio si celebra nel modo abituale; sia i sacerdoti che il vescovo vi predicano, dicendo cose appropriate al giorno e al luogo. Dopo di che, la sera, tutti ritornano a Gerusalemme. Nel cinquantesimo giorno dopo Pasqua, che è domenica e che richiede dal popolo un faticoso impegno, si compiono tutte le cerimonie abituali, iniziando dal canto del primo gallo. La vigilia si fa all’Anàstasis, perché il vescovo legga quel passo del Vangelo che si legge sempre la domenica, concernente la Risurrezione del signore; poi nel medesimo luogo si svolgono gli uffici consueti, come durante tutto l’anno. Venuto il mattino, il popolo si riunisce nella chiesa maggiore, il Martyrium, e anche là si fa ogni cosa secondo la consuetudine: i sacerdoti predicano, dopo predica il vescovo; tutto avviene secondo la regola, si offre l’oblazione al modo solito, come è abitudine di domenica”. (…) Quindi, “tutto il popolo rientra alle proprie case, ciascuno si riposa un poco e, subito dopo aver mangiato, sale al Monte degli Ulivi, cioè l’Eleona, come può, tanto che nessun cristiano rimane in città e manca di andare. Non appena dunque si giunge sul Monte degli ulivi, ossia l’Eleona, si va innanzi tutto all’Imbonon, il luogo da cui il Signore ascese al cielo. Quivi il vescovo, i sacerdoti e tutto il popolo siedono, si fanno le letture, si alternano inni e si dicono antifone adatte al giorno e al luogo; anche le preghiere alternate hanno sempre un riferimento conveniente al luogo e al giorno. Si legge pure quel passo del Vangelo che racconta l’Ascensione del Signore, si legge ancora il passo degli Atti degli apostoli dove si parla dell’Ascensione al cielo del Signore, dopo la sua Resurrezione. Quando si è compiuto ciò, si benedicono i catecumeni, poi i fedeli, e circa all’ora nona si discende di là e al canto di inni si giunge a quell’altra chiesa, che sorge pure sull’Eleona, nella quale vi è la grotta dove il Signore sedeva per istruire gli Apostoli”.
Dal testo della pellegrina Egeria è possibile ricavare essenzialmente che l’Ascensione costituiva un’unica festa con la Pentecoste, venendo celebrata nel pomeriggio dello stesso giorno. Per quanto riguarda, infatti, la celebrazione del quarantesimo giorno, nulla sembra alludere all’
Ascensione, mentre l’Allusione è esplicita nel giorno di Pentecoste.
Una testimonianza esplicita di tale prassi è possibile rinvenirla nella XIV catechesi di san Cirillo di Gerusalemme, pronunciata nel 348, dove tra l’altro si dice: “La serie ordinata dell’insegnamento della verità mi invita a parlare dell’Ascensione; ma la grazia di Dio ha disposto che tu ne abbia udito parlare più che a sufficienza, data la nostra debolezza, nella giornata di ieri, domenica. Per una disposizione della grazia divina la successione delle letture fatte nella Sinassi comportava che si trattasse quello che riguarda l’Ascensione al cielo del nostro Salvatore. L’argomento fu trattato per tutti quanti e per la moltitudine dei fedeli radunati, ma soprattutto per te. Sai che la serie ordinata delle verità della fede ti insegna a credere in colui che è risorto il terzo giorno, salì al cielo e siede alla destra del Padre”.
La festa dell’Ascensione cominciò ad avere una fisionomia propria nelle varie Chiese tra il quinto ed il sesto secolo. Il fatto che ne parli Eusebio nei primi decenni del 300 come “giorno solenne”; Cirillo di Gerusalemme, come abbiamo visto; che Gregorio Nisseno (+395) abbia scritto due omelie su questa festa, che certamente esercitarono un grande influsso per la sua diffusione; che Giovanni Crisostomo (+407) la definisca festa antica ed universale, e che Agostino (+430) dica che fosse celebrata nel mondo intero essendo di origine apostolica, non deve trarre in inganno relativamente al tempo della celebrazione a sé stante; tali fonti, infatti, devono essere lette come riferite ad un’unica festa Ascensione-Pentecoste al cinquantesimo giorno.

(Tratto da Gaetano Passarelli, L’Icona dell’Ascensione, La Casa di Matriona, Milano 1993)

PRIMA ANTIFONA

Pànda ta èthni, krotìsate chìras; alalàxate to Theò imòn en fonì agalliàseos.

SECONDA ANTIFONA

Mègas Kìrios, ke enetòs sfòdhra en pòli tu Theù imòn, en òri aghìo aftù.

Sòson imàs, Iiè Theù, o en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, psàllondàs si: Allilùia.

TERZA ANTIFONA

Akùsate tàfta, pànda ta èthni; enotìsasthe, pàndes ikatikùndes tin ikumènin.

Anelìfthis en dhòxi, Christè o Theòs imòn, charopiìsas tus mathitàs ti epanghelìa tu Aghìu Pnèvmatos, veveothèndon aftòn dhià tis evloghìas, òti si i o Iiòs tu Theù, o Litrotìs tu kòsmu.

ISODHIKON

Anèvi o Theòs en alalagmò, Kìrios en fonì sàlpingos.

Sòson imàs, Iiè Theù, o en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, psàllondàs si: Allilùia.

TROPARI

Anelìfthis en dhòxi…

Tin ipèr imòn pliròsas ikonomìan, ke ta epì ghis enòsas tis uranìis, anelìfthis en dhòxi, Christè o Theòs imòn, udhamòthen chorizòmenos, allà menòn adhiàstatos, ke voòn tis agapòsi se; egò imì meth’imòn, ke udhìs kath’imòn.

EPISTOLA (Atti 1,1-12)

Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre “quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”. Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino agli estremi confini della terra”. Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme, quanto il cammino permesso in un sabato.

VANGELO (Lc. 24,36-53)

In quel tempo, mentre gli Apostoli parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio. Amìn.

MEGALINARIO

Se tin ipèr nun ke lògon mitèra Theù tin en chròno ton àchronon afràstos kiìsasan i pìsti omofrònos megalìnomen.

KINONIKON

Anèvi o Theòs en alalagmò, Kìrios en fonì sàlpingos. Allilùia.

Al posto di “Idhomen to fòs…” e “Ii to ònoma…” si canta:

Anelìfthis en dhòxi…

OPISTHAMVONOS

Ìpsoson imòn, Dhèspota, pros uranòn ta fronìmata ton proskinùndon su to kràtos, ke ton nun imòn apò ton ghiìnon frondìdhon èlkison pros eaftòn, o tin tapinothìsan fìsin imòn en eaftò ipsòsas, ke sìnthronon to ipsìsto piìsas Patrì. Ke kataxìoson imàs epì ghis os en uranò politèfsasthe ta àno zitùndas, òpu i en dhexià tu Theù kathìmenos, ke prosdhokòndas su tin èndhoxon ke foveràn parusìan, is ton tròpon dhi’Anghèlon egnòrisas tis theatès tis is tus uranùs anòdhu su makarìis Apostòlis. Ke sinkatarìthmison imàs tis en tes nefèles arpazomènis is apandisìn su erchomènu krìne tin ikumènin en dhikeosìni, ìna sin aftìs eonìos agalliasòmetha, tis sis terpnòtitos apolàvondes; ti evdhòkia ke filanthropìa tu anàrchu su Patròs, sin to panaghìo ke agathò ke to zoopiò su Pnèvmati, nin ke aì, ke is tus eònas ton eònon.

APOLISIS

O en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, ke en dhexià kathìsas tu Theù ke Patròs…

Commento al Vangelo:
In questa scena soltanto Gesù agisce e parla: saluta, domanda, rimprovera, mostra le mani e i piedi e, perfino, mangia davanti ai suoi discepoli. Non si dice se hanno toccato Gesù e neppure, almeno esplicitamente, se hanno creduto. Di loro, però, sono descritti i sentimenti interiori: lo sconcerto e la paura, il turbamento e il dubbio, lo stupore e l’incredulità, la gioia.
Raccontando questo episodio Luca ha certamente un’intenzione apologetica (elogio in difesa di una persona o di una dottrina). Gesù offre via via prove sempre più convincenti in una sorta di itinerario progressivo che proprio qui si conclude: il sepolcro vuoto, l’apparizione degli angeli alle donne, l’incontro con i due discepoli di Emmaus, l’apparizione a Pietro e, infine, a tutti gli undici riuniti. Qui Gesù mostra le mani e i piedi, si fa vedere come una persona in carne e ossa, mangia una porzione di pesce. Gesù è veramente risorto! La sua persona è reale e concreta, non un fantasma evanescente.
Il Risorto “dischiude loro la mente per comprendere le Scritture”. Senza l’intelligenza delle Scritture il discepolo può trovarsi accanto al Signore senza riconoscere chi Egli sia. Gli eventi rinchiusi nella divina necessità non sono due ma tre: la passione, la risurrezione, la predicazione a tutte le genti. Anche la missione è inclusa nella divina necessità, non è ai margini dell’evento cristologico, ma ne fa parte. Destinatari dell’annuncio sono “tutte le genti”, dunque l’universalità più ampia possibile. E l’annuncio deve avvenire “nel suo nome”, cioè, deve poggiare sulla sua autorità, non su altro. Contenuto dell’annuncio è la conversione e il perdono. La conversione è in primo luogo la conversione della mente, una conversione teologica: il Crocifisso è rivelazione di Dio, non sconfitta. Annunciare il perdono dei peccati è proclamare che l’amore di Dio è più grande del nostro peccato. Annunciare la Croce significa annunciare un Dio che perdona. L’Ascensione conclude la storia evangelica ma nello stesso modo apre la storia della Chiesa. Per Luca l’Ascensione ha un duplice significato:
a) È un salire al Padre (“veniva portato verso il cielo”), precisando in tal modo che la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita di prima, quasi un passo all’indietro, ma l’entrata in una condizione nuova, un passo in avanti, nella gloria di Dio.
b) L’Ascensione è però descritta come un distacco, una partenza (“si staccò da loro”): Gesù ritira la sua presenza visibile, sostituendola con una presenza nuova, invisibile e tuttavia più profonda: una presenza che si coglie nella fede, nell’intelligenza delle Scritture, nell’ascolto della Parola, nella frazione del pane e nella fraternità.

9 maggio 2010

09 MAGGIO 2010
DOMENICA DEL CIECO NATO


Il Sacerdote, dopo aver detto: “Evloghimèni i vasilìa…”, intercalato dal popolo, canta tre volte:

Christòs anèsti ek nekròn, thanàto thànaton patìsas, ke tis en tis mnìmasi zoìn charisàmenos.

PRIMA ANTIFONA

Alalàxate to Kìrio, pàsa i ghi.

SECONDA ANTIFONA

O Theòs iktirìse imàs ke evloghìse imàs.

Sòson imàs, Iiè Theù, o anastàs ek nekròn, psallondàs si: Allilùia.

TERZA ANTIFONA

Anastìto o Theòs ke dhiaskorpisthìtosan i echthrì aftù ke fighètosan apò prosòpu aftù i misùndes aftòn.

Christòs anèsti…

ISODHIKON

En ekklisìes evloghìte ton Theòn, Kìrion ek pigòn Israìl.

Sòson imàs, Iiè Theù, o anastàs ek nekròn, psàllondàs si. Alliluia.

TROPARI

Della Domenica: Ton sinànarchon Lògon Patrì ke Pnèvmati, ton ek Parthènu techthènda is sotirìan imon, animnìsomen pistì ke proskinìsomen; òti ivdhòkise sarkì, anelthìn en to stavrò, ke thànaton ipomìne, ke eghìre tus tethneòtas, en ti endhòxo Anastàsi aftù.

Della titolare della Parrocchia: En ti ghennìsi tin parthenìan efìlaxas, en ti kimìsi ton kòsmon u katèlipes, Theotòke. Metèstis pros tin zoìn, Mìtir ipàrchusa tis zoìs ke tes presvìes tes ses litrumèni ek thanàtu tas psichàs imòn.

Kontàkion: I ke en tàfo katìlthes, Athànate, allà tu Adhu kathìles tin dhìnamin ke anèstis os nikitìs, Christè o Theòs, ghinexì mirofòris fthenxàmenos. Chèrete, ke tis sis Apostòlis irìnin dhorùmenos, o tis pesùsi parèchon anàstasin.

TRISAGHION

Osi is Christòn evaptìsthite, Christòn ene-dhìsasthe. Allilùia.

EPISTOLA (Atti 16,16-34)

In quei giorni, mentre andavamo alla preghiera, venne verso di noi una giovane schiava, che aveva uno spirito di divinazione e procurava molto guadagno ai suoi padroni facendo l’indovina, essa seguiva Paolo e noi gridando: “Questi uomini sono servi del Dio Altissimo e vi annunziano la via della salvezza”. Questo fece per molti giorni finché Paolo, mal sopportando la cosa, si volse e disse allo spirito: “In nome di Gesù Cristo ti ordino di partire da lei”. E lo spirito partì all’istante. Ma vedendo i padroni che era partita anche la speranza del loro guadagno, presero Paolo e Sila e li trascinarono nella piazza principale davanti ai capi della città; presentandoli ai magistrati dissero: “Questi uomini gettano il disordine nella nostra città; sono Giudei e predicano usanze che a noi Romani non è lecito accogliere né praticare”. La folla allora insorse contro di loro, mentre i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione e ordinarono al carceriere di far buona guardia. Egli, ricevuto quest’ordine, li gettò nella cella più interna della prigione e strinse i loro piedi nei ceppi. Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli. D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito tutte le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti. Il carceriere si svegliò e vedendo aperte le porte della prigione, tirò fuori la spada per uccidersi, pensando che i prigionieri fossero fuggiti. Ma Paolo gli gridò forte: “Non farti del male, siamo tutti qui”. Quegli allora chiese un lume, si precipitò dentro e tremando si gettò ai piedi di Paolo e Sila; poi li condusse fuori e disse: “Signori, cosa devo fare per esser salvato?”. Risposero: “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”. E annunziarono la parola del Signore a lui e a tutti quelli della sua casa. Egli li prese allora in disparte a quella medesima ora della notte, ne lavò le piaghe e subito si fece battezzare con tutti i suoi; poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio.

VANGELO (Gv. 9,1-38)

In quel tempo Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è cosi perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”. Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti alla piscina di Sìloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: “Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?”. Alcuni dicevano: “È lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”. Ed egli diceva: “Sono io!”. Allora gli chiesero: “Come dunque ti furono aperti gli occhi?”. Egli rispose: “Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Va’ a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista”. Gli dissero: “Dov’è questo tale?”. Rispose: “Non lo so”. Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”. Allora alcuni dei farisei dicevano: “Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato”. Altri dicevano: “Come può un peccatore compiere tali prodigi?”. E c’era dissenso tra di loro. Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”. Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: “È questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?”. I genitori risposero: “Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso”. Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: “Ha l’età, chiedetelo a lui!”. Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: “Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”. Quegli rispose: “Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”. Allora gli dissero di nuovo: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?”. Rispose loro: “Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. Allora lo insultarono e gli dissero: “Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia”. Rispose loro quell’uomo: “Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato da Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo e mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”. Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo, Signore!”. E gli si prostrò innanzi.

MEGALINARIO

O Ànghelos evòa ti kecharitomèni: Aghnì Parthène, chère, ke pàlin erò, chère; o sos Iiòs anèsti triìmeros ek tàfu ke tus nekrùs eghìras, laì agalliàsthe. Fotìzu, fotìzu, i nèa Ierusalìm; i gar dhòxa Kirìu epì se anètile, Chòreve nin ke agàllu, Siòn: Si dhe, aghnì, tèrpu, Theotòke, en ti Eghèrsi tu tòku su.

KINONIKON

Sòma Christù metalàvete, pighìs athanàtu ghèfsasthe. Allilùia.

Al posto di “Idhomen to fòs…” e “Ii to ònoma…” si canta:

Christòs anèsti ek nekròn…

SALUTO PASQUALE

Sac.: Christòs anèsti

Pop.: Alithòs anèsti

Sac.: Krishti u ngjall

Pop.: Vërteta u ngjall

Sac.: Cristo è risorto

Pop.: È veramente risorto

Zi ke vasilèvi is pàntas tus eònas. Amìn.

Sac.: Christòs anèsti ek nekròn, thanàto thànaton patìsas …

Pop.: Ke tis en tis mnìmasi zoìn charisàmenos.

Commento al Vangelo:
Il vangelo di Giovanni è una composizione teologica e l’evangelista cerca di illustrare la persona e la missione di Gesù più che richiamare episodi concreti della sua vita. Per Giovanni l’essenza di questo “segno” non consiste semplicemente nel fatto che venga restituita la vista, ma che venga donata la luce a chi non l’aveva mai posseduta. La luce che Gesù è venuto a portare non appartiene per diritto agli uomini, ma è un puro dono di Dio offerto per mezzo di Gesù Cristo: l’uomo, in questo senso, è per natura cieco nato.
Nel racconto si nota la tensione con il giudaismo, raffigurata non solo nel processo al cieco perché neghi l’opera di Gesù, ma anche in una nota che in realtà riflette la situazione del tempo in cui scriveva l’evangelista: “I Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga”. Ma un filo conduttore è quello affidato alla sequenza dei titoli attribuiti a Gesù, destinati in crescendo a mostrare che il vero approdo non è tanto quello della vista fisica ma quello della fede: “quest’uomo” Gesù, “inviato”, “profeta”, “colui che è da Dio”, “Figlio dell’uomo”, “Signore”, con l’adorazione finale: “Io credo Signore” e gli si prostrò innanzi.
La finale del racconto giovanneo del “segno” del cieco nato ha al centro la piena conversione del miracolato che proclama la sua fede nel Cristo come Kìrios “Signore”, il termine greco con cui si traduceva il nome divino JHWH della Bibbia ebraica. Ancora una volta è confermato il fatto che per Giovanni i miracoli abbiano un valore trascendente, da scoprire oltre il pure evento storico.
Chi ha peccato? È l’eterna domanda che angustia il cuore dell’uomo di fronte al male. Bisogna trovare un responsabile, un colpevole a cui addossare il peso del male che sconvolge la nostra tranquillità. Così ci scarichiamo di ogni responsabilità e non cambiamo nulla dentro di noi.
Spesso il colpevole è il prossimo, la società, i potenti, oppure è Dio stesso che “permette”, che non proibisce, che non interviene a cambiare le cose! Ancora una volta si cerca di giudicare Dio e di misurarlo con le nostre povere capacità.
Ma Gesù risponde in modo chiaro e deciso: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”. È la risposta che non ammette repliche, e cambia totalmente la visuale dell’uomo; è la risposta che comincia ad illuminare la mente umana con una luce nuova e la libera dalle strettezze che le impediscono di vedere tutta la realtà, anche quella invisibile.
Qui viene una prima lezione di conversione: smettiamola di guardare sempre tutto con la nostra miopia; smettiamola di giudicare confrontandoci con la nostra povera esperienza.
È ora di aprirci alla vastità di Dio, alle sue dimensioni, alla sua grandezza. Ciò comporterà un senso di smarrimento, ma è il segno che finalmente siamo entrati nella sfera dell’invisibile, del soprannaturale, cioè della realtà definitiva dell’uomo.
“Tu l’hai visto!”. Così si presenta Gesù al cieco guarito, dopo gli interrogatori dei farisei che hanno cercato di negare l’evidenza del miracolo solo per coprire il loro orgoglio e l’ignoranza di chi non vuole uscire dalle sicurezze abitudinarie.
Il cieco “vede”, mentre quelli che credono di “vedere” non vedono e non capiscono nulla, si coprono di ridicolo e restano nella menzogna.
Il giudizio di Gesù è talmente chiaro e pesante, da suscitare l’ira e la vendetta di quei giudei tanto insofferenti di fronte alla verità. Ma questo giudizio cade anche su tutti noi quando non abbiamo il coraggio di aprire gli occhi, pensando di sapere già tutto, di avere già fatto la scelta giusta, di non avere più nulla da cambiare.
La conversione di cui abbiamo bisogno è precisamente questa: sentirci in stato di ricerca, desiderosi di un “di più” e di “un meglio” senza accontentarci di quello che già sappiamo e già siamo: voler conoscere meglio la parola di Dio per metterci in discussione e adeguare il vivere al credere.
Ma c’è sempre in noi la paura della luce: vogliamo tenere per noi qualche angolo oscuro della coscienza dove entriamo soltanto noi, ma Gesù ci ammonisce: “Mentre avete la luce, credete nella luce per diventare figli della luce” (Gv. 12,36). Noi cristiani abbiamo la fortuna di avere la luce. Saremmo ingrati e sciocchi se non usassimo questo dono. Apriamoci “alla luce della fede” per portare un giudizio più positivo sulla nostra storia quotidiana, sul mondo e sulla chiesa: non il senso del castigo, della fatalità del male o dell’impossibilità di una santità autentica desiderata e costruita ogni giorno, ma la certezza che in noi “si manifesta l’opera di Dio”. Gesù ce lo assicura e mette nelle nostre mani la realizzazione di questa promessa.
La luce di Dio illumini la nostra vita quotidiana e ci faccia capire le spinte segrete che muovono le nostre scelte anche in seno alla comunità cristiana, il perché di tanti nostri contemporanei che di cristiano non hanno nulla. Lasciamoci guidare dal “gusto” di Dio che non guarda alle apparenze ma al cuore, e diamo alle nostre relazioni e ai nostri giudizi sul prossimo questa nuova misura, cambierà qualcosa e in meglio.
È ora di svegliarci: come cristiani, come “mondo cattolico” è ora di cominciare qualcosa di nuovo più coerente col messaggio evangelico, qualcosa che raggiunga i fratelli addormentati e lontani dalla luce di Dio. È questo il compito, la nostra non piccola responsabilità.
A noi si presenta il Cristo, come messia, come profeta, come salvatore, a noi rivela la sua vera identità: non restiamo indifferenti, non lasciamoci raffreddare dall’abitudine. “Io credo” diventa allora la professione di un impegno decisivo.
La nostra vocazione di cristiani è di essere luce e figli della luce, e non possiamo essere luce che in lui, poiché ha detto: “Io sono la luce del mondo” (Gv. 8,12).
Nel battesimo noi siamo diventati “luce” e “figli della luce”. Così al simbolismo battesimale dell’“acqua viva” si aggiunge quello della “luce”.
Il cammino del cristiano, allora, è cammino di luce, è cammino di risurrezione. L’apostolo Paolo ci esorta, di conseguenza, a comportarci come “figli della luce” e ci indica che “il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef. 5,9). Lo stesso apostolo ci suggerisce il proposito che dobbiamo fare e la decisione che dobbiamo prendere se vogliamo essere figli della luce: “Gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie” (Rom. 13, 12-13). Noi siamo luce del Signore.