9 maggio 2010

09 MAGGIO 2010
DOMENICA DEL CIECO NATO


Il Sacerdote, dopo aver detto: “Evloghimèni i vasilìa…”, intercalato dal popolo, canta tre volte:

Christòs anèsti ek nekròn, thanàto thànaton patìsas, ke tis en tis mnìmasi zoìn charisàmenos.

PRIMA ANTIFONA

Alalàxate to Kìrio, pàsa i ghi.

SECONDA ANTIFONA

O Theòs iktirìse imàs ke evloghìse imàs.

Sòson imàs, Iiè Theù, o anastàs ek nekròn, psallondàs si: Allilùia.

TERZA ANTIFONA

Anastìto o Theòs ke dhiaskorpisthìtosan i echthrì aftù ke fighètosan apò prosòpu aftù i misùndes aftòn.

Christòs anèsti…

ISODHIKON

En ekklisìes evloghìte ton Theòn, Kìrion ek pigòn Israìl.

Sòson imàs, Iiè Theù, o anastàs ek nekròn, psàllondàs si. Alliluia.

TROPARI

Della Domenica: Ton sinànarchon Lògon Patrì ke Pnèvmati, ton ek Parthènu techthènda is sotirìan imon, animnìsomen pistì ke proskinìsomen; òti ivdhòkise sarkì, anelthìn en to stavrò, ke thànaton ipomìne, ke eghìre tus tethneòtas, en ti endhòxo Anastàsi aftù.

Della titolare della Parrocchia: En ti ghennìsi tin parthenìan efìlaxas, en ti kimìsi ton kòsmon u katèlipes, Theotòke. Metèstis pros tin zoìn, Mìtir ipàrchusa tis zoìs ke tes presvìes tes ses litrumèni ek thanàtu tas psichàs imòn.

Kontàkion: I ke en tàfo katìlthes, Athànate, allà tu Adhu kathìles tin dhìnamin ke anèstis os nikitìs, Christè o Theòs, ghinexì mirofòris fthenxàmenos. Chèrete, ke tis sis Apostòlis irìnin dhorùmenos, o tis pesùsi parèchon anàstasin.

TRISAGHION

Osi is Christòn evaptìsthite, Christòn ene-dhìsasthe. Allilùia.

EPISTOLA (Atti 16,16-34)

In quei giorni, mentre andavamo alla preghiera, venne verso di noi una giovane schiava, che aveva uno spirito di divinazione e procurava molto guadagno ai suoi padroni facendo l’indovina, essa seguiva Paolo e noi gridando: “Questi uomini sono servi del Dio Altissimo e vi annunziano la via della salvezza”. Questo fece per molti giorni finché Paolo, mal sopportando la cosa, si volse e disse allo spirito: “In nome di Gesù Cristo ti ordino di partire da lei”. E lo spirito partì all’istante. Ma vedendo i padroni che era partita anche la speranza del loro guadagno, presero Paolo e Sila e li trascinarono nella piazza principale davanti ai capi della città; presentandoli ai magistrati dissero: “Questi uomini gettano il disordine nella nostra città; sono Giudei e predicano usanze che a noi Romani non è lecito accogliere né praticare”. La folla allora insorse contro di loro, mentre i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione e ordinarono al carceriere di far buona guardia. Egli, ricevuto quest’ordine, li gettò nella cella più interna della prigione e strinse i loro piedi nei ceppi. Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli. D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito tutte le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti. Il carceriere si svegliò e vedendo aperte le porte della prigione, tirò fuori la spada per uccidersi, pensando che i prigionieri fossero fuggiti. Ma Paolo gli gridò forte: “Non farti del male, siamo tutti qui”. Quegli allora chiese un lume, si precipitò dentro e tremando si gettò ai piedi di Paolo e Sila; poi li condusse fuori e disse: “Signori, cosa devo fare per esser salvato?”. Risposero: “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”. E annunziarono la parola del Signore a lui e a tutti quelli della sua casa. Egli li prese allora in disparte a quella medesima ora della notte, ne lavò le piaghe e subito si fece battezzare con tutti i suoi; poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio.

VANGELO (Gv. 9,1-38)

In quel tempo Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è cosi perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”. Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti alla piscina di Sìloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: “Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?”. Alcuni dicevano: “È lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”. Ed egli diceva: “Sono io!”. Allora gli chiesero: “Come dunque ti furono aperti gli occhi?”. Egli rispose: “Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Va’ a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista”. Gli dissero: “Dov’è questo tale?”. Rispose: “Non lo so”. Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”. Allora alcuni dei farisei dicevano: “Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato”. Altri dicevano: “Come può un peccatore compiere tali prodigi?”. E c’era dissenso tra di loro. Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”. Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: “È questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?”. I genitori risposero: “Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso”. Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: “Ha l’età, chiedetelo a lui!”. Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: “Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”. Quegli rispose: “Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”. Allora gli dissero di nuovo: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?”. Rispose loro: “Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. Allora lo insultarono e gli dissero: “Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia”. Rispose loro quell’uomo: “Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato da Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo e mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”. Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo, Signore!”. E gli si prostrò innanzi.

MEGALINARIO

O Ànghelos evòa ti kecharitomèni: Aghnì Parthène, chère, ke pàlin erò, chère; o sos Iiòs anèsti triìmeros ek tàfu ke tus nekrùs eghìras, laì agalliàsthe. Fotìzu, fotìzu, i nèa Ierusalìm; i gar dhòxa Kirìu epì se anètile, Chòreve nin ke agàllu, Siòn: Si dhe, aghnì, tèrpu, Theotòke, en ti Eghèrsi tu tòku su.

KINONIKON

Sòma Christù metalàvete, pighìs athanàtu ghèfsasthe. Allilùia.

Al posto di “Idhomen to fòs…” e “Ii to ònoma…” si canta:

Christòs anèsti ek nekròn…

SALUTO PASQUALE

Sac.: Christòs anèsti

Pop.: Alithòs anèsti

Sac.: Krishti u ngjall

Pop.: Vërteta u ngjall

Sac.: Cristo è risorto

Pop.: È veramente risorto

Zi ke vasilèvi is pàntas tus eònas. Amìn.

Sac.: Christòs anèsti ek nekròn, thanàto thànaton patìsas …

Pop.: Ke tis en tis mnìmasi zoìn charisàmenos.

Commento al Vangelo:
Il vangelo di Giovanni è una composizione teologica e l’evangelista cerca di illustrare la persona e la missione di Gesù più che richiamare episodi concreti della sua vita. Per Giovanni l’essenza di questo “segno” non consiste semplicemente nel fatto che venga restituita la vista, ma che venga donata la luce a chi non l’aveva mai posseduta. La luce che Gesù è venuto a portare non appartiene per diritto agli uomini, ma è un puro dono di Dio offerto per mezzo di Gesù Cristo: l’uomo, in questo senso, è per natura cieco nato.
Nel racconto si nota la tensione con il giudaismo, raffigurata non solo nel processo al cieco perché neghi l’opera di Gesù, ma anche in una nota che in realtà riflette la situazione del tempo in cui scriveva l’evangelista: “I Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga”. Ma un filo conduttore è quello affidato alla sequenza dei titoli attribuiti a Gesù, destinati in crescendo a mostrare che il vero approdo non è tanto quello della vista fisica ma quello della fede: “quest’uomo” Gesù, “inviato”, “profeta”, “colui che è da Dio”, “Figlio dell’uomo”, “Signore”, con l’adorazione finale: “Io credo Signore” e gli si prostrò innanzi.
La finale del racconto giovanneo del “segno” del cieco nato ha al centro la piena conversione del miracolato che proclama la sua fede nel Cristo come Kìrios “Signore”, il termine greco con cui si traduceva il nome divino JHWH della Bibbia ebraica. Ancora una volta è confermato il fatto che per Giovanni i miracoli abbiano un valore trascendente, da scoprire oltre il pure evento storico.
Chi ha peccato? È l’eterna domanda che angustia il cuore dell’uomo di fronte al male. Bisogna trovare un responsabile, un colpevole a cui addossare il peso del male che sconvolge la nostra tranquillità. Così ci scarichiamo di ogni responsabilità e non cambiamo nulla dentro di noi.
Spesso il colpevole è il prossimo, la società, i potenti, oppure è Dio stesso che “permette”, che non proibisce, che non interviene a cambiare le cose! Ancora una volta si cerca di giudicare Dio e di misurarlo con le nostre povere capacità.
Ma Gesù risponde in modo chiaro e deciso: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”. È la risposta che non ammette repliche, e cambia totalmente la visuale dell’uomo; è la risposta che comincia ad illuminare la mente umana con una luce nuova e la libera dalle strettezze che le impediscono di vedere tutta la realtà, anche quella invisibile.
Qui viene una prima lezione di conversione: smettiamola di guardare sempre tutto con la nostra miopia; smettiamola di giudicare confrontandoci con la nostra povera esperienza.
È ora di aprirci alla vastità di Dio, alle sue dimensioni, alla sua grandezza. Ciò comporterà un senso di smarrimento, ma è il segno che finalmente siamo entrati nella sfera dell’invisibile, del soprannaturale, cioè della realtà definitiva dell’uomo.
“Tu l’hai visto!”. Così si presenta Gesù al cieco guarito, dopo gli interrogatori dei farisei che hanno cercato di negare l’evidenza del miracolo solo per coprire il loro orgoglio e l’ignoranza di chi non vuole uscire dalle sicurezze abitudinarie.
Il cieco “vede”, mentre quelli che credono di “vedere” non vedono e non capiscono nulla, si coprono di ridicolo e restano nella menzogna.
Il giudizio di Gesù è talmente chiaro e pesante, da suscitare l’ira e la vendetta di quei giudei tanto insofferenti di fronte alla verità. Ma questo giudizio cade anche su tutti noi quando non abbiamo il coraggio di aprire gli occhi, pensando di sapere già tutto, di avere già fatto la scelta giusta, di non avere più nulla da cambiare.
La conversione di cui abbiamo bisogno è precisamente questa: sentirci in stato di ricerca, desiderosi di un “di più” e di “un meglio” senza accontentarci di quello che già sappiamo e già siamo: voler conoscere meglio la parola di Dio per metterci in discussione e adeguare il vivere al credere.
Ma c’è sempre in noi la paura della luce: vogliamo tenere per noi qualche angolo oscuro della coscienza dove entriamo soltanto noi, ma Gesù ci ammonisce: “Mentre avete la luce, credete nella luce per diventare figli della luce” (Gv. 12,36). Noi cristiani abbiamo la fortuna di avere la luce. Saremmo ingrati e sciocchi se non usassimo questo dono. Apriamoci “alla luce della fede” per portare un giudizio più positivo sulla nostra storia quotidiana, sul mondo e sulla chiesa: non il senso del castigo, della fatalità del male o dell’impossibilità di una santità autentica desiderata e costruita ogni giorno, ma la certezza che in noi “si manifesta l’opera di Dio”. Gesù ce lo assicura e mette nelle nostre mani la realizzazione di questa promessa.
La luce di Dio illumini la nostra vita quotidiana e ci faccia capire le spinte segrete che muovono le nostre scelte anche in seno alla comunità cristiana, il perché di tanti nostri contemporanei che di cristiano non hanno nulla. Lasciamoci guidare dal “gusto” di Dio che non guarda alle apparenze ma al cuore, e diamo alle nostre relazioni e ai nostri giudizi sul prossimo questa nuova misura, cambierà qualcosa e in meglio.
È ora di svegliarci: come cristiani, come “mondo cattolico” è ora di cominciare qualcosa di nuovo più coerente col messaggio evangelico, qualcosa che raggiunga i fratelli addormentati e lontani dalla luce di Dio. È questo il compito, la nostra non piccola responsabilità.
A noi si presenta il Cristo, come messia, come profeta, come salvatore, a noi rivela la sua vera identità: non restiamo indifferenti, non lasciamoci raffreddare dall’abitudine. “Io credo” diventa allora la professione di un impegno decisivo.
La nostra vocazione di cristiani è di essere luce e figli della luce, e non possiamo essere luce che in lui, poiché ha detto: “Io sono la luce del mondo” (Gv. 8,12).
Nel battesimo noi siamo diventati “luce” e “figli della luce”. Così al simbolismo battesimale dell’“acqua viva” si aggiunge quello della “luce”.
Il cammino del cristiano, allora, è cammino di luce, è cammino di risurrezione. L’apostolo Paolo ci esorta, di conseguenza, a comportarci come “figli della luce” e ci indica che “il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef. 5,9). Lo stesso apostolo ci suggerisce il proposito che dobbiamo fare e la decisione che dobbiamo prendere se vogliamo essere figli della luce: “Gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie” (Rom. 13, 12-13). Noi siamo luce del Signore.

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