28 novembre 2012

Il "Credo" contro i falsi dei


È l'obiettivo prioritario dell'anno della fede voluto da Benedetto XVI. Riavvicinare gli uomini all'unico vero Dio. E deporre dai loro troni le false divinità che dominano il mondo



Una battaglia navale nel buio della tempesta. Questo era lo spettacolo che la Chiesa dava di sé dopo il primo concilio ecumenico della storia, quello di Nicea nel secolo IV.
Benedetto XVI ama ricordarlo ai profeti di sventura di oggi. Quella battaglia di tutti contro tutti – dice – alla fine produsse il "Credo", lo stesso "Credo" che si proclama oggi in tutte le messe domenicali. Non fu un disastro, ma una vittoria della fede.
La differenza tra allora e oggi è proprio qui. La crisi profonda della Chiesa odierna è una crisi di fede. Papa Joseph Ratzinger ne è così convinto che lo scorso 11 ottobre ha voluto inaugurare uno speciale anno della fede, e ogni mercoledì, giorno delle sue udienze pubbliche settimanali, s'è messo a spiegare il "Credo" articolo per articolo.
Da teologo, il papa si fa catechista. Il suo sogno è che tanti maestri di strada, in tutto il mondo, prendano esempio da lui e tornino a insegnare agli uomini "le verità centrali della fede su Dio, sull’uomo, sulla Chiesa, su tutta la realtà sociale e cosmica", insomma, l'abc della fede cristiana.
Andando ancor più alla sostanza, Benedetto XVI ha indicato più volte la "priorità" del suo pontificato nel ricondurre gli uomini a Dio, e "non a un dio qualsiasi", ma a quel Dio che ha rivelato il suo volto in Gesù crocifisso e risorto.
Perché il declino del "Credo in unum Deum" nei paesi di antica cristianità è coinciso proprio con un'ascesa nel firmamento di altri dei. Anche questa è una vicenda ricorrente nella storia. Anche nella Chiesa dei primi secoli, quelli delle persecuzioni e dei martiri, il dramma più acuto era dato dai "lapsi", da chi cadeva nella tentazione di bruciare incenso al "divus imperator" per aver salva la vita. Erano in numero ingente e i puristi, settari, li volevano espellere come apostati. La Chiesa li tenne tra i suoi figli ed elaborò nuove forme di confessione, penitenza, perdono. Quel sacramento che oggi, di nuovo, è il più in pericolo e insieme è così necessario.
I nuovi dei, Benedetto XVI li chiama per nome. L'ha fatto, ad esempio, nella memorabile "lectio divina" che tenne ai più di duecento vescovi del penultimo sinodo.
I nuovi dei sono i "capitali anonimi che schiavizzano l'uomo".
Sono la violenza terroristica "apparentemente fatta in nome di Dio" ma in realtà "in nome di false divinità che devono essere smascherate".
Sono la droga che "come una bestia vorace stende le sue mani su tutta la terra e distrugge".
Sono "il modo di vivere propagandato dall'opinione pubblica: oggi si fa così, il matrimonio non conta più, la castità non è più una virtù, e così via".
A giudizio di Benedetto XVI – un giudizio che ha ribadito anche di recente, nella prefazione ai due volumi della sua "opera omnia" con gli scritti conciliari – stanno proprio qui la forza e la debolezza del Vaticano II, nel cui cinquantesimo anniversario egli ha indetto l'anno della fede.
Il concilio ha voluto ravvivare l'annuncio della fede cristiana al mondo d'oggi, in forme "aggiornate". E in parte vi è riuscito. Ma non ha saputo andare alla sostanza di "ciò che è essenziale e costitutivo dell'età moderna".
È vero, ad esempio, che per la Chiesa c'è voluta la frustata dell'Illuminismo, per farle riscoprire quella che era l'idea della cristianità antica in materia di libertà di religione. Su questo papa Ratzinger concorda con il cardinale Carlo Maria Martini: qui la Chiesa era davvero "indietro di duecento anni".
Ma il papa concorda ancor più con il cardinale Camillo Ruini, quando questi obietta che comunque "una distanza ci deve essere della Chiesa rispetto a qualsiasi tempo, compreso il nostro ma anche quello in cui visse Gesù", una distanza "che ci chiama a convertire non solo le persone, ma anche la cultura e la storia".
I Cortili dei Gentili organizzati dal cardinale Gianfranco Ravasi questa distanza la mettono in mostra, dando voce e cattedra alla cultura del tempo, lontana da Dio.
Ma a papa Ratzinger sta più a cuore che i falsi dei vengano detronizzati, affinché gli uomini ritrovino l'unico vero Dio.

Dall'Osservatore Romano: di Sandro Magister

Diario Vaticano / In curia, tutti vestiti come si deve


Una circolare interna vieta al clero l'uso degli abiti borghesi e impone il ritorno alla talare. Anche per i vescovi in visita a Roma. Ecco il testo integrale della lettera, firmata da Bertone su incarico del papa





CITTÀ DEL VATICANO, 19 novembre 2012 – Veste talare obbligatoria per cardinali e vescovi negli orari d’ufficio. Talare o clergyman per sacerdoti e monsignori. Abito specifico per i religiosi, sempre e in qualsiasi stagione. E nelle cerimonie alla presenza del papa o negli incontri ufficiali in curia romana: “abito piano”, cioè talare, per i sacerdoti, talare filettata per i monsignori e talare con mantellina filettata (chiamata “pellegrina”) per i vescovi e i cardinali.
È questo l'ordine di servizio ribadito di recente in Vaticano sulla scia delle disposizioni impartite da Giovanni Paolo II in una lettera dell’8 settembre 1982 all’allora cardinale vicario di Roma Ugo Poletti:
"La cura dell'amata diocesi di Roma..."
In quella lettera papa Karol Wojtyla si rivolgeva al suo vicario, "che più da vicino condivide le mie cure e sollecitudini nel governo della diocesi, [...] perché, d’intesa con le sacre congregazioni per il clero, per i religiosi e gli istituti secolari e per l’educazione cattolica, voglia studiare opportune iniziative destinate a favorire l’uso dell’abito ecclesiastico e religioso, emanando a tale riguardo le necessarie disposizioni e curandone l’applicazione".
La nuova circolare, che porta la data del 15 ottobre 2012 ed è stata diramata durante l’ultimo sinodo dei vescovi, è firmata dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, che l’ha scritta, si legge, "per venerato incarico", cioè su indicazione di Benedetto XVI.
Essa suona come richiamo al "dovere di esemplarità che incombe soprattutto su quanti prestano servizio al successore di Pietro".
Ma non solo. La lettera vuole essere un "esplicito incoraggiamento" per tutti coloro – "anche per gli episcopati", si sottolinea – che vengono in visita a Roma.
Nel testo non si fa esplicito riferimento alle religiose che lavorano in Vaticano, ma per analogia con i religiosi la regola dovrebbe valere anche per loro.
L’indicazione quindi è molto chiara. Chi ha modo di frequentare gli uffici vaticani potrà vedere in che misura verrà rispettata.
Ecco qui di seguito la trascrizione integrale della lettera, scritta su carta intestata della sezione per gli affari generali della segreteria di Stato, con protocollo N. 193.930/P, e indirizzata ai capi dei dicasteri, tribunali e uffici della Santa Sede e del vicariato di Roma.